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RELAZIONI IN CRISI

LO SGUARDO ALTROVE: PAROLE  E IMMAGINI  IN DIALOGO

di Annamaria Maruccia


Il tema dello sguardo mi sta particolarmente a cuore. Nello sguardo si vela o si svela l’animo umano.

Nella mitologia greca, Narciso conchiude lo sguardo su se stesso: l’altro non è contemplato, non esiste se non come prolungamento di sè o come ‘protesi’ di un bisogno che tende all’autosoddisfacimento. Eco, si innamora di Narciso,  per esistere deve riflettersi nel suo sguardo, il proprio sguardo pencola pericolosamente nel nulla. Attraverso il mito di Narciso e di Eco già nell’antica Grecia si volle descrivere il rischio, per la sopravvivenza psichica, del mancato aggancio con lo sguardo dell’altro. L’altro per eccellenza è la madre: è nel suo sguardo amorevole che nasce a sé il neonato.

Quest’estate ho rivisitato l’ex chiesa del Salvatore in Chora a Istanbul. Mi ha colpito un affresco, sicuramente l’avevo visto nella visita precedente, ma quell’affresco non aveva lasciato tracce in me. Evidentemente qualcosa è cambiato in questi vent’anni. Qualcosa è cambiato in me. Certo avevo in mente la relazione che avrei tenuto oggi e per questo non poteva sfuggirmi, ma c’è dell’altro : se oggi vi parlo dello sguardo è perché ho la sensazione che qualcosa si stia perdendo intorno alla presa emozionale degli sguardi, ma su questo torneremo dopo, intanto vi mostro l’immagine:  vi è rappresentata una Madonna che ha in braccio il Bambino. I loro sguardi si incontrano in un abbraccio reciproco, uno sguardo molto intenso.


 

Questa Madonna è chiamata ‘La Madonna della vita’ a sottolineare l’aspetto vivificante dello sguardo che infonde vita. Mi ha colpito la reciprocità dello sguardo  come se l’infondere vita non emanasse solo dalla Madre- Madonna, ma lo stesso sguardo del Bambino sembra poter , a sua volta, vivificare la madre. C’è vita, c’è amore in quello scambio di sguardi. L’incontro degli sguardi è intenso: l’una si apre all’altro, in una compenetrazione che lascia aperta la possibilità di conoscere intimamente l’altro e di farsi attraversare dalla curiosità. Né la Madre-Madonna né il Bambino sembrano spaventarsi, nessuno dei due retrocede di fronte a tanta bellezza, direbbe Meltzer uno psicoanalista a cui devo molto, in


entrambi c’è il coraggio di penetrare la vita emozionale dell’altro. Ogni creatura umana nasce col desiderio di conoscere la verità su se stesso  e lo  fa interrogando lo sguardo dell’Altro e l’Altro per eccellenza è la madre.

Cercando di raccogliere i miei pensieri intorno all’argomento, mi sono trovata a pensare che sono trascorsi trent’anni dacchè ho cominciato a conversare con genitori, insegnanti, psicologi, educatori. Mi sono trovata a immaginare una sorta di fil rouge che sembra tenere insieme gli aspetti che si sono evidenziati di decennio in decennio. Riassumo per chiarezza.

Negli anni ottanta le riflessioni si svolgevano   sulle conseguenze della rivoluzione culturale degli anni sessanta e settanta e nelle conferenze che tenevo per i genitori e per gli insegnanti il punto focale era il nuovo modello educativo che virava verso un atteggiamento ‘laissez-faire’.  Sempre più frequentemente i ‘NO’ lasciavano il passo ai ‘SI’. Massimo Recalcati, psicoanalista, nel suo libro ‘Cosa resta del padre?’ cita Lacan e parla di ‘evaporazione del padre’. I ‘NO’, in quanto rappresentanti della figura paterna, articolano il discorso educativo, vertebrano, direbbe Resnik, la configurazione della persona. Si assiste invece ad uno sfilacciamento dei rapporti educativi , verso una destabilizzazione dei rapporti familiari, non solo, anche il mondo scolastico sembra investito dalla polverizzazione dell’autorevolezza. I professori fanno molta fatica a recuperare il proprio ruolo e a mantenere l’attenzione sul compito: ‘il processo di insegnamento-apprendimento’ è tenuto con molta fatica e grande dispendio di energia. L’antica alleanza tra le figure educative, genitori e  insegnanti, vacilla verso atteggiamenti di sfiducia e di disconoscimento. I ragazzi slegati dai lacci costrittivi dei ‘No’, svincolati da una presa autorevole, virano verso  atteggiamenti maniacali di supponenza e di ‘ribellione’ , evitano ogni forma di ‘subordinazione’ alle regole di convivenza civile e di impegno. Si  credono liberi, ma si scoprono ‘soli’.  Svincolati dallo sguardo degli adulti si immaginano autosufficienti, convinti che si tratti di  una propria conquista, salvo sentirsi invasi da una forte inquietudine e da una vaga paura ad affrontare il mondo fuori. Senza argini, senza una mappatura, senza un navigatore si perdono, passando da un senso di conquista a un senso di smarrimento.  Sono ‘pezzi’ di vita quotidiana che incontro frequentemente sia nella mia attività di psicoterapeuta sia come consulente nelle scuole. Sono tante le storie di solitudine, sono troppi i ragazzi che passano interi pomeriggi in casa da soli o peregrinando senza scopo tra strade e spazi destrutturati. Sembrano condurre una vita normale, sembrano capaci di attraversare i lunghi pomeriggi senza apparenti conseguenze, salvo ‘richiamare’ l’attenzione dell’adulto perché distratti, demotivati, incapaci di trovare un senso in quello che fanno, una concentrazione sufficiente per lo svolgimento dei propri impegni scolastici. Abitano nel nulla e nel nulla si perdono. E’ venuto meno il contenitore capace di regolare e di dare un senso alla loro vita. Gli si chiede di impegnarsi, ma è una richiesta che arriva loro per procura: chi chiede è convinto che i ragazzi abbiano già internalizzato i loro compiti: sembrano adulti, ma sono bambini smarriti.

Con la rivoluzione del ’68 l’autorità paterna è stata messa fortemente in scacco. La mia generazione ha dettato nuove regole di vita sociale, ma sono venute meno le compensazioni. Come i ragazzi anche noi adulti ci troviamo senza argine, senza una nuova mappatura, senza un navigatore  che ci aiuti a recuperare il rapporto educativo su nuove posizioni, certamente più complesse della vecchia mappatura, costellata di ‘NO’ e di atteggiamenti autoritari di ‘supposto sapere’. Anche noi viaggiamo ‘a spanne’, disorientati, a volte stanchi, sovraccarichi di impegni e di pensieri. Allora  i ‘SI’ diventano un facile alibi per permetterci di ritirarci da una presenza impegnativa. Gestire il  ‘conflitto’, arginare il rapporto, ridefinirlo nella quotidianità  è più difficile che concedere ai figli, con una certa complicità,  surrogati della nostra presenza.

Bauman, un sociologo che ha molto scritto intorno alla crisi valoriale che ci attraversa, parla di un modello familiare ‘liquido’, cangiante, semovente.  La famiglia tradizionale non è più un riferimento. Il conflitto non è più un valore. E così come i genitori vanno ritirandosi dalla gestione dei conflitti  con i figli altrettanto accade anche nella coppia:  i rapporti coniugali si sottraggono alle difficoltà della gestione dei conflitti emotivi scegliendo più spesso il ‘taglio’, con conseguenze spesso imprevedibili e dannose per la crescita e l’equilibrio emotivo dei figli. L’isolamento del nucleo familiare, l’assenza  di entrambi i genitori, assorbiti dal mondo lavorativo, il venir meno di contenitori sociali hanno ulteriormente facilitato il dissesto della cellula familiare. La società liquida di cui ci parla  Bauman, un sociologo che ha molto scritto intorno alla crisi valoriale che ci attraversa,  merita un approfondimento. L’espressione da lui coniata rende bene l’idea di una perdita di consistenza nei nostri rapporti. Che siamo una società in crisi è evidente a tutti noi.  Siamo in una sorta di tunnel, di cui ancora non vediamo la luce. Abbiamo perso i tradizionali agganci valoriali, culturali ed educativi e per il momento annaspiamo. Abbiamo tutti la sensazione di un certo disfunzionamento, ma non riusciamo a trovare il modo per uscirne.

Inoltre la percezione di un miglioramento economico ha accelerato l’effetto dissolvenza, ingabbiati dentro i bisogni indotti di produrre e consumare, creando un senso di accelerazione  sempre più sradicata dai bisogni veri, dai ritmi più lenti e impegnativi della cura di sé e degli altri. Dice Recalcati nel suo libro citato: ”L’astuzia del discorso capitalista consiste nella capacità di sfruttare sistematicamente questo smarrimento.”  E ricorda come Pasolini avesse anticipato questa involuzione sociale immaginando che gli ex sudditi di un potere autoritario sarebbero diventati avidi consumatori. L’accelazione di cui siamo vittime provoca una ‘accelerazione infernale’: il capitalismo ci costringe a viaggiare ad una velocità costantemente accelerata. “E’ la dimensione genericamente maniacale del discorso capitalista.” (Recalcati)

Ed eccoci arrivati a quello che sembra essere il punto focale del ‘duemila’: la velocità. Corriamo ad una velocità che mette in pericolo i rapporti familiari. C’è un troppo pieno negli impegni lavorativi, sociali che ci costringe a correre veloce nel tentativo  rocambolesco di tenere insieme lavoro e famiglia.

Non si tratta di demonizzare la velocità. Lo sguardo si può perdere anche in un tempo fortemente rallentato da un vissuto depressivo, in cui la madre, pur essendoci fisicamente, non lo è come presenza psichica, incapace di farsi carico delle richieste del proprio bambino. Se la mia attenzione è stata presa dal tema contemporaneo della velocità è perché mi sono sentita sollecitata da un servizio fotografico che sembra chiederci di fermarci a riflettere. Ecco è questo che vi propongo. Una pausa di riflessione. Fermare la corsa per pensare, per capire cosa ci sta accadendo, riflettere su una  delle conseguenze più importanti di tale smarrimento:  la perdita dello sguardo e il senso di solitudine pervasivo, come conseguenza di un’accelazione del nostro ritmo quotidiano.

 

Vi propongo delle diapositive. Si tratta del servizio fotografico della Diesel, credo del 2007.

Ringrazio la Diesel, in particolare Elena Bordignon, Responsabile dei servizi pubblicitari, per avermi concesso la possibilità di utilizzare tali immagini . Il fotografo ha fissato alcuni istanti della vita quotidiana, una vita in velocità. Il servizio si chiama ‘Live fast’. Alcune di queste immagini si possono vedere cliccando al seguente indirizzo internet: http://www.designyourway.net/blog/inspiration/diesel-jeans-advertising-campaigns-45-prints/ (immagini sotto il titolo “live Fast”, dalla decima alla quattordi-cesima della serie).  Ne fui colpita. E mi riservai di scrivere alcune riflessioni. Ho scelto questa occasione per farlo. Scorrendole possono suscitare in noi un certo rifiuto. Possiamo liquidarle come immagini paradossali.  E lo sono. Ma ci costringono a pensare. La prima immagine che vidi in una rivista femminile,  fu l’immagine della madre che cambia il pannolino  al suo bambino in velocità. Rimasi attonita. Mi sembrava un’immagine che riusciva a descrivere in una sorta di istantanea un nodo problematico che mi si ripropone frequentemente: le relazioni familiari sono sottoposte ad una forza centrifuga pericolosa. Guardiamo il fotogramma. Si tratta di un neonato, che viene cambiato in velocità. Si vede la mamma-modella che gli spruzza del borotalco. Colpisce l’espressione del neonato, completamente abbandonato sul braccio ‘materno’, quasi ripiegato su se stesso.         Si intuisce la mancanza di tono muscolare e si intravede un’espressione di tristezza. Potrebbe essere, la mia,  una lettura personale, forse una mia proiezione. In effetti questa immagine mi suscita un sentimento di tristezza.  La madre-modella ha  un’espressione tesa.  Il contrasto tra la tensione muscolare della madre-modella, che

 

corre veloce su tacchi improbabili e l’ipotono del neonato sembrano volerci dire qualcosa intorno alla mancanza di un contatto tenero e affettuoso: il fotografo ha fissato nel fotogramma due solitudini, non una coppia, la coppia madre-bambino, quale archetipo di una relazione primaria: ‘summa’ di tutte le relazioni future della vita  di quel bambino. Manca lo sguardo accogliente della madre verso il bambino, manca il contatto intimo e tenero necessario alla crescita mentale del bambino.  Manca quel rispecchiamento del bambino nel volto della madre, quale primo incontro del neonato con se stesso, ricordate l’affresco della Madonna di Chora? Chi vede quel bambino?  O meglio cosa vede? Il ‘nulla’, antesignano del vuoto d’identità, triste anticamera delle patologie narcisistiche purtroppo così diffuse nelle nostre stanze di consultazione.

Se spostate lo sguardo sull’ombra proiettata sul muro, l’effetto è di un pugno nello stomaco. Non si distingue più l’oggetto borotalco. C’è una mano protesa, quasi nell’atto di colpire qualcosa che non ha più una forma distinguibile. Non c’è più il volto della madre-modella né quello del neonato. L’immagine sdoppiata sembra presagire qualcosa di ‘violento’ e drammatico. La vita, la vitalità di un rapporto così prezioso e così intenso lascia il posto a qualcosa di macabro, che si perde nel nero di un’ombra inquietante.

Non v’è dubbio che il fotografo sia riuscito a rappresentare molto più di un momento di ‘vita veloce’, molto più di una madre che corre veloce tra lavoro e famiglia. In un’istantanea è riuscito a dare una rappresentazione efficace delle conseguenze che una vita troppo veloce ha sulla qualità dei rapporti tanto delicati quanto fragili che caratterizzano i primi anni di vita. Qualsiasi spinta, sollecitazione che non abbia più la crescita e lo sviluppo psico-fisico del bambino come compito prioritario mette in pericolo la qualità dello sviluppo stesso.

Vi propongo un altro fotogramma:

 

 

Di nuovo una donna, la donna che lavora e che non ha tempo da dedicare a se stessa.  Come nel precedente fotogramma anche in questo la donna corre,  la meta è il lavoro.  Dietro di lei un chirurgo che cuce una lunga ferita sulla gamba, ma la donna ha a sua volta un filo per cucire un vestito sul manichino, la sua espressione è tesa e quell’ago sembra essere impugnato quasi a trafiggere quel manichino. Lo sfondo non è una stanza di ospedale, ma il laboratorio di un’azienda tessile. L’immagine sembra dirci:i Il lavoro prima di tutto, il lavoro è  ‘tutto’, un tutto fagocitante, che toglie ogni spazio privato, cancella ogni traccia di relazioni e affetti, lasciando la desolazione di un ‘devo’ di kantiana memoria, che uccide il piacere dei piccoli gesti quotidiani, cancella i momenti di recupero e di rilassatezza.  La tensione, la smorfia di dolore, impressi in quel gesto, descrivono un’incapacità di prendersi cura della propria persona. ‘Attenzione!’ , sembra dire il fotografo, c’è una ferita. E’ la ferita del nostro tempo, un tempo compresso, un tempo tirannico. E così il lavoro, conquista della donna, che ha lottato per ottenere uno  spazio per esprimere il suo talento, sviluppare le sue competenze, per  progettare la sua autonomia, sembra trasformarsi in una trappola: non è più la persona in primo piano, ma il dover essere massimamente abile nella produttività che svuota di senso la sua vita.

Mi soffermo su questo terzo fotogramma, gli altri che vi mostrerò ne sono i corollari. In questa immagine c’è uno strano triangolo familiare. Un padre in corsa che legge un libro alla sua bambina, aggrappata al suo pelouche e una figura femminile che corre in una direzione opposta. Sembra che abbiano lasciato la propria casa come se ci fosse stata una scossa di terremoto, metafora di uno sconvolgimento dei nostri ritmi quotidiani.  Sta di fatto che sono in strada, come se lo spazio della casa non fosse più uno spazio vivibile, condivisibile. Notate che è buio, non si tratta di una ‘passeggiata’ in una giornata di sole. Viene da dire: “Ma dove corrono o da dove fuggono!”

Dicevo prima ‘strano triangolo’. Possiamo immaginare  un padre, una bambina e una madre, ma non si incontrano, non si guardano. Ho immaginato in questo fotogramma una rappresentazione sintetica della crisi del modello familiare. Dov’è la famiglia riunita intorno ad uno spazio accogliente? Manca il calore,  manca ancora lo sguardo che riunifica che vivifica i rapporti familiari. C’è un elemento comune che sembra voler dire qualcosa:  ‘l’ombra nera’ nel primo fotogramma, la ferita nel secondo, il buio nel terzo fotogramma: il lato ‘dark’ della vita veloce, ciò che va perduto (la vitalità nel primo fotogramma), ciò che s’imprime come una ferita (la mancanza di cura verso la propria persona, secondo fotogramma), ciò che si oscura alla vista, ci fa correre come disperati senza una meta condivisa, nel terzo fotogramma.

Due gli aspetti ricorrenti: la velocità e la mancanza dello sguardo.

Quando parlo di velocità penso ad una vita satura di impegni,  satura di cose che assorbono il tempo. E penso con rammarico alle qualità di un tempo insaturo e dunque un tempo lento, in cui le pause possano diventare la necessaria interpunzione per recuperare uno spazio di riflessione e di digestione . Abbiamo bisogno di decantare, direi quasi di ‘sbollire’ la sbornia della velocità. Giacchè la velocità, il troppo pieno sono assimilabili ad una sorta di antidepressivo che spinge il nostro umore verso tonalità alticcie, (ipo)maniacali. Sì sto descrivendo la velocità come una sorta di droga. Possiamo dirci dopati di velocità e come tutte le droghe si insinuano nella nostra vita e dettano le regole del gioco  e quando ce ne rendiamo conto siamo già ‘dentro’, in buona parte intrappolati.

Rallentiamo il passo con la lettura di una poesia  di Rainer Maria Rilke che sembra volerci dire qualcosa intorno alla velocità:


 

Noi siamo gli smaniosi della fretta.

Ma, sapete, è un’inezia

In quel che eterno permane

Il fuggire del Tempo.

Ogni precipitarsi è già morto:

Da ciò che sta fermo ci viene

L’iniziazione

Gioventù, non dissolvere

Nella velocità il tuo animo,

Non forzarti a volare.

Perché riposo è tutto:

L’oscuro e il luminoso,

Il libro, il fiore.


 

Tornando al servizio fotografico. Nel tempo velocifero (espressione coniata da Goethe, che coniuga insieme due parole velocità e luciferino) non c’è spazio per lo sguardo. E a ben pensarci non potremmo dire che i  protagonisti del servizio fotografico, tutti in fuga, stiano sottraendosi  alla presa  di un tempo che se rallentato li farebbe sentire più ‘scoperti’, più ‘limitati’? La perdita della capacità da parte degli adulti di assumersi  la propria quota parte di responsabilità nel compito educativo mina alle radici il discorso generazionale, quella differenza essenziale che mette ordine e consente la crescita e lo sviluppo della nuova generazione. Accade così che ai figli non vengano riconosciuti gli spazi necessari per poter esprimere i propri bisogni. Tutto resta confuso. E il ponte generazionale resta sospeso nella nebbia di un tempo indefinito che viene scambiato-falsificato come un tempo infinitamente giovanile. Di questa illusione sono vittime gli uomini quanto le donne. Il significato stesso di generare subisce una sorta  di deformazione. Non è un caso, ricorda Baumann,  che si genera sempre meno. La possibilità di scegliere rende l’atto di generare una possibilità rinviabile o sostituibile.

In questo tempo liquido e inconsistente ci si sottrae al rischio di dipendere affettivamente, ci si sottrae alla responsabilità di perdere una parte di libertà per accedere a  un rapporto più limitante, ma più solido. Lo sguardo verso l’altro richiede questo sacrificio, questo atto di responsabilità.

(((((((Baumann ricorda nel suo libro ‘Amore liquido’  un passo del Simposio di Platone. Lo cito a mia volta perché mi sembra, tornando indietro a più di duemila anni fa, sia ancora valido per recuperare un filo, questa volta non teso a infilzare, come nel fotogramma,  ma a tessere una trama necessaria per generare significati vivificanti. “La Profetessa Diotima fece notare a Socrate, il quale ne convenne, che ‘l’amore non è amore del bello, come tu credi…ma generazione e procreazione nel bello’. Amare significa desiderare di generare e procreare’ e, dunque chi ama ‘quando si avvicina al bello diviene ilare, e nella sua letizia si effonde e procrea e genera.’ In altre parole, prosegue Baumann, non è nella brama di cose pronte per l’uso, belle e finite, che l’amore trova il proprio significato, ma nello stimolo a partecipare al divenire di tali cose.” (p.10))))))))

Ora mi sembra giunto il momento per addentrarci  nel divenire di un rapporto creativo.

Chiamo subito in causa il tempo insaturo e lo sguardo vivificante che sono a fondamento del rapporto primigenio tra la madre e il figlio, dentro lo sguardo più ampio e contenitivo del padre.

Diceva Winnicott ‘non c’è un bebè se non c’è una madre’ possiamo completare tale asserzione così : ’non c’è un bebè se non c’è un padre che contiene e separa una madre dal figlio’.  Nel gioco degli sguardi la triangolazione è fondamentale  perché il bambino non si perda nella madre e la madre nel bambino, il padre deve poter assicurare, con la propria presenza concreta  e/o simbolica  il sostegno necessario.

Ho l’impressione che oggi troppo spesso si taglia corto sull’importanza di una corresponsabilità nell’impegno di assicurare ai figli riferimenti affettivi che sono imprescindibili.

La donna che lavora per scelta o per necessità ha più che mai bisogno di poter contare sulla collaborazione attiva del compagno e non solo e non tanto come aiuto per se stessa, ma come atto di riconoscimento che da sola non può bastare per assicurare quell’intreccio di identificazioni necessarie per uno sviluppo equilibrato dei figli. Il suo sguardo non basta, è necessario lo sguardo di un padre che sappia sopperire alla sua stanchezza, che sappia inserirsi nella coppia madre-bambino e ridare slancio alla speranza quando avverte un cedimento nella madre.

La qualità della presenza paterna è fondamentale per lo sviluppo psicologico del bambino, perché aiuta la madre a distanziarsi dal bambino per recuperare la fatica di una esposizione eccessiva e aiuta il bambino che non si sente lasciato solo. La continuità è importante. Ma non deve essere una continuità finalizzata  a delle cure pratiche. La continuità di cui ha bisogno il bambino è la continuità di una presenza capace di interpretare i suoi bisogni.  Il bambino non sa esprimere verbalmente i suoi bisogni. Necessita per questo di una mente sussidiaria che sa immaginare,  attraverso una identificazione regressiva, i suoi bisogni, una mente che non si perde nell’angoscia del suo pianto, che sa comprendere l’importanza del gioco e si coinvolge. Solo così il bambino sente che esiste. Ha bisogno di sentirsi interessante, di sentirsi amato. Il bambino sin da subito è una persona capace di sentire, attraverso il contatto e lo sguardo della madre e del padre che le è accanto, l’interesse che suscita.  Si sente bello se  nello sguardo può leggere la bellezza, si sente amato se nello sguardo può leggere amore, si sente interessante se nello sguardo legge interesse. Il neonato , nella sua estrema fragilità, è sprovvisto della capacità di sentirsi vivo di per sé, per questo facilmente scivola nell’angoscia di non esistere. E’ la presenza complice della madre che, attraverso l’interpretazione e  la soddisfazione dei suoi bisogni, lo fa sentire vivo e interessante. “Sembra dunque che dobbiamo qualificare il sentimento di esistere non come un sentimento di sé, di identità, di esistenza autonoma,ma come un sentimento di esistere-per -l’altro.” (98)

Possiamo dunque comprendere quanto sia importante lo sguardo vivificante della madre, la tenerezza con cui può accogliere  il pianto o il capriccio del suo bambino, poterli sentire come una tensione comunicativa, come un modo per esprimere qualcosa di inesprimibile. Occorre rallentare il passo, fermarsi per cercare di capire, di interpretare, trattenersi dalla tentazione di liquidare i capricci come comportamenti insensati e sentirsi autorizzati a reprimerli, dando luogo a lunghe catene di fraintendimenti.

Il bambino frainteso perde se stesso,  se non si sente pensato, capito dalla madre (e dal padre naturalmente) perde il senso di esistere. Se i pensieri del bambino non sono pensati dai genitori , egli non si sente capito e non si sente esistere.((( Dina Vallino ci propone i versi di una poesia, ci possono essere d’aiuto a comprendere meglio ))))

“Vivo nel nulla  / senza esistere, /  non sento di esistere /  pur sapendo di essere vivo / e se tu non esisti con me / come posso esistere io?” (A. Comazzi)

Il bambino che non può sviluppare il senso di esistere è un bambino che non può giocare, non può separarsi dalla madre, non può accedere al  mondo simbolico. Resta  conchiuso in se stesso, paralizzato, rachitico, ipotonico, come il bambino del fotogramma. Quel bambino si trascinerà in un vuoto di esistenza che lo farà sentire disadattato al mondo. Lo ritroveremo più avanti negli anni scolastici perso tra le nuvole, chiuso in un rifugio inaccessibile o ipercinetico, irrequieto, inafferrabile, entrambi, pur con comportamenti opposti, raccontano senza un’esplicita consapevolezza del  vuoto interiore: troppe delusioni sembrano aver minato profondamente il senso della speranza.

Penso ad una paziente, una giovane donna, che da piccola si nascondeva nell’armadio o si inerpicava sugli alberi del giardino. Aspettava che qualcuno si accorgesse della sua assenza. Non si sentiva vista e sollecitava, inconsapevolmente,  uno sguardo che le accendesse la speranza di poter esistere per qualcuno,  che mostrasse un interesse per la sua persona.  Quel fraintendimento l’ha portata a perseverare in comportamenti di fuga, impossibilitata a investire in rapporti più maturi e soddisfacenti come se il trauma originario l’avesse immobilizzata a perpetuare una richiesta di attenzione volta al passato in un tentativo di emarginare una ferita rimasta troppo a lungo aperta che  ha  provocato un’emorragia di speranza che rende difficile il compito terapeutico.

La sfida cui siamo chiamati tutti i giorni è di mantenere aperta la possibilità  di recuperare quello sguardo sul bambino perso, smarrito, disorientato, spaventato ritessendo con cura i fili sfilacciati per accedere con pazienza e delicatezza a quel mondo interiore rimasto incapsulato e da lì recuperare la speranza e riaccendere la curiosità e l’interesse verso la vita emotiva. Solo così è possibile recuperare un senso alla vita, solo lo sguardo sinceramente interessato può riaccendere la speranza. In questo difficile compito siamo chiamati tutti, genitori, educatori, insegnanti psicoterapeuti, tutti,  in quanto adulti, siamo chiamati ad esserci e a volgere il nostro sguardo interessato, lasciandoci attraversare dalla domande, sostenendo l’incertezza, coltivando la pazienza. Soprattutto rallentando il passo.

La questione della velocità mi ha particolarmente colpito. Io stessa sono ‘veloce’, non mi sento affatto fuori questione, anzi. Ma ho la fortuna di svolgere una professione che mi permette di fermarmi e di lasciare fuori l’alta velocità per volgere lo  sguardo  verso il mondo interno mio e dei miei pazienti. Un ritmo completamente diverso, un ritmo lento. Il nostro mondo interno è lento, lentissimo e più corriamo veloci, più il nostro mondo interno si restringe, si difende, alza muri molto alti. Chi viene  a chiedermi aiuto, desidera stare meglio in fretta. La domanda esplicita o implicita è: “Quanto ci impiegheremo?”. Di solito rispondo : “Il tempo di cui avremo bisogno. Il tempo necessario per trasformare una storia bloccata, appiattita nella concretezza di ciò che è accaduto in  tante possibili storie.”

Bassano del Grappa 28 Settembre 2012

Dott.ssa Anna Maria Maruccia